Prove illecite durante processo civile: violazione della normativa sui dati personali?
Il Dott. Luca Papetti approfondisce il tema dell’utilizzabilità o meno di alcune prove inerenti dati sensibili durante il processo. Prove illecite o lecite? Leggi la news!
La presente dissertazione trae origine da una massima di una sentenza della Corte Suprema di Cassazione (Cassazione civile sez. III, 05/05/2020, n.8459), che ha affrontato la spinosa questione relativa alla presunta illegittimità delle prove acquisite nell’ambito di un processo civile, poiché assunte in violazione della normativa sul trattamento dei dati personali.
Nel caso di specie, l’accertamento della paternità fondato su campioni biologici acquisiti presso l’azienda ospedaliera è legittimo e non è configurabile alcuna lesione del diritto alla protezione dei dati personali nel momento in cui gli stessi vengono trattati per esigenze di giustizia.
La Suprema Corte sulle prove illecite
La Suprema Corte, con una lunga e articolata pronuncia, anche in considerazione della complessità della vicenda fattuale, enuncia il principio di diritto secondo cui rimane precluso l’accesso, nel giudizio civile, a quelle prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione di interessi costituzionalmente tutelati, riferibili alla parte contro cui la prova viene utilizzata.
Fatte queste premesse, nel caso di specie la Suprema Corte conferma quanto statuito dal giudice d’appello, secondo il quale in detta vicenda è difettata del tutto qualsiasi violazione del D.lgs. n. 196 del 2003 (codice in materia di trattamento dei dati personali).
Le questioni giuridiche e la soluzione nel caso specifico di prove illecite
Con un motivo di ricorso per Cassazione, il ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione degli art. 11 e 16 d.lgs. n. 196 del 2003, dell’art. 13 Cost., dell’art. 8 CEDU, dell’art. 16 TFUE e dell’art. 8 CDFUE.
Secondo tali motivi di gravame, la Corte d’Appello avrebbe affermato erroneamente la legittimità delle operazioni peritali, atteso che i dati personali, posti alla base della C.T.U., non avrebbero potuto essere utilizzati nel processo civile, in quanto illecitamente ceduti dalla struttura ospedaliera e considerato che il disposto dell’art. 191 c.p.p., in campo penale, fa espresso divieto dell’utilizzazione di prove illegittimamente acquisite a tutela dell’imputato.
La Suprema Corte, analizzando detto motivo di gravame, si sofferma a fondo sul profilo inerente all’inutilizzabilità della prova.
Il giudice può basarsi su prove considerate “illecite”?
L’istituto sopra invocato non è contemplato nell’ordinamento processuale civile, non venendo in rilievo, nei giudizi in cui si controverte di diritti che hanno la loro fonte nei rapporti privati, le medesime esigenze di garanzia richieste nel processo penale, che sono poste a tutela di interessi aventi una ben diversa rilevanza (status libertatis).
Nell’ordinamento processuale civile, osserva la Corte, manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova.
Pertanto, come regola generale, il giudice può porre a base del proprio convincimento anche prove atipiche, salvo che il mezzo di prova costituisca ex se, per suo modo di essere, lesione di un diritto fondamentale della persona, per tali intendendosi quelle fonti di prova acquisite con modalità tali da ledere le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite.
La rilevanza della prova, statuisce la Corte, dipende dal grado di efficacia probatoria che il giudice di merito le riconosce.
Disposizione processuale o condotta illecita?
Per le motivazioni esposte, la Suprema Corte esclude, in via di principio, un’applicazione diretta o analogica della norma dettata dall’art. 191 c.p.p. al processo civile e passa ad analizzare il profilo più specifico della censura, attinente all’invalido svolgimento della C.T.U. in quanto fondata su elementi probatori (vetrini con campioni biologici conservati presso i nosocomi) che il ricorrente assume essere stati illecitamente acquisiti in violazione del d.lgs. n. 196 del 2003.
Dunque, a rilevare non è la disposizione processuale (art. 191 c.p.p.), ma, a monte, la condotta illecita per violazione del divieto prescritto dalla norma di diritto sostanziale, venendo, tra l’altro, la vittima dell’illecito civile a coincidere con la medesima parte processuale contro cui tale informazione viene fatta valere.
Come tutelare il diritto alla protezione dei dati personali?
La condotta illecita, relativa alla divulgazione e alla comunicazione del dato, che non poteva essere acquisito, afferma la Corte, non può certamente trasformarsi in lecita attraverso le rituali forme di assunzione delle prove nel processo.
In tale ipotesi l’utilizzo probatorio del dato verrebbe ad integrare il medesimo pregiudizio che la norma sostanziale di divieto intende impedire: il diritto dell’interessato alla protezione del dato personale.
La Suprema Corte, di conseguenza, afferma in modo risoluto l’erroneità della statuizione del giudice d’appello nella parte in cui sostiene che, in assenza di norme espressamente limitative dell’utilizzo – nel giudizio civile – di prove acquisite illecitamente, si ricava il principio di una generale ammissione di tali fonti di prova.
Quando il trattamento dei dati personali (le prove illecite) sono effettuate per ragioni di giustizia
Al contrario, la Corte di Cassazione enuncia il principio generale, ripetutamente affermato, secondo cui:
“rimane precluso l’accesso a quelle prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione delle libertà fondamentali e costituzionalmente garantite quali la libertà personale, la segretezza della corrispondenza, l’inviolabilità del domicilio, riferibili alla parte contro cui la prova viene utilizzata”.
Corretta in tal senso la motivazione della sentenza, la Corte osserva che la pronuncia del giudice d’Appello è esente da censura.
A corroborare quanto affermato, la Corte richiama la normativa sostanziale, che attribuisce prevalenza, rispetto al jus arcendi dell’interessato, al trattamento dei dati personali dello stesso qualora “effettuato per ragioni di giustizia”, per tali intendendosi i “trattamenti direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie”.
Prove illecite: la normativa europea e il Garante della Privacy
Anche la normativa europea in materia di trattamento di dati personali (Regolamento UE n. 679 del 2016, i.e. GDPR) prevede che il divieto espresso di trattare categorie particolari di dati ex art. 9, § 1 e 2, lett. f), tra i quali rientrano anche i dati genetici dell’interessato, rilevanti nel caso di specie, non si applica ove il trattamento stesso risulti necessario “per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”.
Specularmente, gli stessi diritti dell’interessato incontrano il limite dell’accertamento, dell’esercizio o della difesa di un diritto in sede giudiziaria (art. 18, § 2; art. 17, § 3, lett e); art. 21, § 1, GDPR).
Ulteriori limitazioni possono essere apportate dagli Stati membri nel caso in cui, fatta salva l’essenza dei diritti e delle libertà fondamentali, vi sia la necessità di adottare “misure necessarie e proporzionate” al fine di salvaguardare “l’esecuzione di azioni civili” (art. 23, § 1, lett. i) e j), GDPR).
Tutela di riservatezza e corretta esecuzione del processo di competenza dell’autorità giudiziaria
La Corte d’Appello, nel caso di specie, si era collocata nella scia del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, con sentenza n. 3034 dell’8 febbraio 2011, secondo cui, nell’ambito dello svolgimento di attività processuale, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria.
È in tale sede che vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo.
Per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque a prevalere sulla disciplina in materia di trattamento dei dati personali, in quanto contenente disposizioni speciali.
Tutto quanto sopra premesso ed osservato, la pronuncia offre lo spunto per alcune interessanti considerazioni conclusive.
Norme di diritto processuale Vs normativa in materia di protezione dei dati personali
La Corte di Cassazione affronta diffusamente il delicato tema, non del tutto nuovo, del rapporto tra norme di diritto processuale e normativa in materia di protezione dei dati personali.
La questione, come è noto, assume particolare rilevanza nel processo civile, dal momento che nel codice di
procedura penale è espressamente previsto il principio dell’inutilizzabilità delle prove illegittime o illegittimamente acquisite in violazione di legge (art. 191 c.p.p.) e sono regolate ipotesi di c.d. inutilizzabilità speciale.
La Corte di Cassazione, una volta superata negativamente la possibile applicazione della norma de quo al processo civile, dà continuità all’orientamento radicato secondo cui, in aderenza al principio di specialità, le norme del codice di rito prevalgono su quelle in materia di protezione dei dati personali.
Il diritto alla protezione dei dati personali è un diritto fondamentale, o assoluto?
Chiaro è, tuttavia, che se da un lato la produzione in giudizio di dati personali è sempre consentita per l’esercizio del diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare, che viene “sostituito” dall’esercizio della funzione pubblica da parte di soggetti preposti a tale ambito, lo jus arcendi va pur sempre bilanciato con il diritto alla protezione dei dati personali, nel rispetto dei principi cardine del trattamento (art. 5 GDPR).
È opinione condivisa dalla dottrina maggioritaria che il diritto alla protezione dei dati personali rappresenti un diritto fondamentale, in quanto riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, oltre che da altre leggi, tra cui il GDPR, e dalla giurisprudenza, ma non sia un diritto assoluto, in quanto per sua natura deve essere bilanciato con altri diritti.
L’indipendenza della Magistratura e dei procedimenti giudiziari prima di tutto
Sul punto la normativa è chiara; l’art. 2-duodecies, rubricato “Inutilizzabilità dei dati”, dispone: «i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati, salvo quanto disposto dall’art. 160-bis», che a sua volta recita: «la validità, l’efficacia e l’utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali».
Dunque, la disciplina in materia di protezione dei dati personali detta limitazioni per ragioni di giustizia – in attuazione dell’art. 23, § 1, lett. f), GDPR – con il fine di salvaguardare l’indipendenza della magistratura e dei procedimenti giudiziari.
Da ultimo, l’importanza che riconosce il legislatore europeo all’ambito giudiziario per il perseguimento dell’interesse collettivo alla giustizia, viene ribadita anche all’art. 9, § 2, lett. f), GDPR, ai sensi del quale il divieto al trattamento delle categorie particolari di dati viene meno «ogniqualvolta le attività giurisdizionali esercitino le loro funzioni».